Danno alla reputazione via web
Ha avuto impatto mediatico la notizia che ha coinvolto il cantante Fedez e la moglie Chiara Ferragni, apostrofati sul social network Twitter con l’espressione “idioti palloni gonfiati”: ne è derivata una querela per diffamazione a carico dell’autore del commento, a fronte della quale la Procura della Repubblica di Roma ha chiesto l’archiviazione.
A parere della Procura, infatti, “la generalità degli utenti non dà peso alle notizie che legge” sui social e proprio nei social le “espressioni denigratorie” “godono di scarsa considerazione e credibilità” e sarebbero quindi “non idonee a ledere la reputazione”.
Le considerazioni con cui la Procura di Roma ha motivato la richiesta di archiviazione suscitano alcuni spunti di riflessione oltre l’ambito penalistico e di tutela dell’immagine della persona fisica.
Dopo aver affermato che anche una persona giuridica, quale una società commerciale, può vedere lesa la propria reputazione, con effetti pregiudizievoli sull’attività di impresa e conseguente diritto al risarcimento del danno (Cass., Sez. 3^ Civ., Sent. n. 10847/2007), la Giurisprudenza di legittimità si è pronunciata negli ultimi anni sui requisiti richiesti al fine di determinare la rilevanza del danno e la sua risarcibilità.
La lesività delle informazioni che circolano nel web, ad esempio, è tanto maggiore quanto è estesa la diffusione della notizia: un contenuto inserito in un sito web specialistico avrà una diffusione ridotta rispetto al numero degli utenti che navigano in rete, ma più ampia se il target di consumatori, al quale un progetto imprenditoriale si rivolge, rappresenta un gruppo elitario (Cass., Sez. 3^ Civ., Ord. n. 16908/2018).
La diffamazione via web è poi amplificata dalla estrema rapidità di diffusione dell’informazione: il messaggio inserito da un utente, infatti, può raggiungere immediatamente un numero indefinito di destinatari, perché genera una catena di condivisione di fatto incontrollabile.
La Giurisprudenza di legittimità ha dato inoltre rilievo alla superficialità con cui gli utenti registrano un messaggio tanto facilmente accessibile, quale quello contenuto nel web. Di un articolo di giornale online, infatti, potrebbe essere valutata la lesività anche del solo titolo che, nella maggior parte dei casi, è decontestualizzato e pertanto fonte di un danno all’immagine potenzialmente maggiore (Cass., Sez. 3^ Civ., Ord. n. 12012/2017).
A fronte delle linee-guida tracciate dalla Corte di Cassazione, risulta evidente come il danno all’immagine via web non sia più inquadrabile nel concetto di danno reputazione tradizionale.
Se pensiamo alla reputazione di un’azienda, ad esempio, il danno potrebbe essere causato anche dalle recensioni negative su prodotti e servizi, spesso inserite in forum di settore e pagine social: se da un lato, i Provider si sono attivati mettendo a disposizione strumenti specifici con cui segnalare e chiedere la rimozione di contenuti offensivi e non veritieri, d’altro lato si tratta di strumenti che non possono ritenersi risolutivi, perché affidati prevalentemente alla discrezionalità degli stessi Provider, specie in assenza di un provvedimento giudiziale che ordini la cancellazione dei contenuti.
Anche per questa ragione, la mancata considerazione della lesività di un contenuto, perché inserito in un contesto ritenuto non autorevole quale quello dei social network – come parrebbe suggerire la richiesta di archiviazione citata – senza un accertamento dell’effettivo impatto del commento sulla sfera giuridica del destinatario, potrebbe avere riflessi di rilievo sulla tutela della reputazione anche di aziende e società commerciali.
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